Gretel e Hansel

Avvolta nel tepore di uno scialle Gretel osservava oltre i vetri dalla finestra.
Erano delle ore che se ne stava immobile, nonostante al di là del vetro si scorgesse solo nebbia. Gretel immaginò che una nuvola bianca si fosse adagiata sul piccolo villaggio e avesse avvolto la notte dentro il suo inconsistente nulla. Per un istante pensò sarebbe stato in questo modo che avrebbe voluto immaginare la sua vita: avvolta in un nulla inconsistente.
In fondo alla via, dove la strada si congiungeva con il ponte della ferrovia, lo stesso lampione che in certe sere rifletteva una luce talmente intensa da riconoscere il numero stampato sulle carrozze quando il treno rallentava, adesso riusciva a stento a penetrarne la densa umidità. Come se fosse stato imbrigliato nel gelo della sera restituiva lo stesso impalpabile grigiore che avvolgeva il cielo, appena un po’ più intenso lungo i suoi contorni indefiniti. Gretel pensò che si sarebbe potuto confondere con la luna, o coi suoi stessi pensieri, e all’improvviso la vita degli altri le sembrò talmente distante che immaginò di ritrovarsi sola sul ciglio di una sconfinata voragine.
La nebbia attutiva i rumori e li ingoiava nel suo freddo ventre. Il silenzio, inizialmente così rassicurante, finì per accrescerle l’ansia dell’attesa, allora provò a immaginare il dolore; o, più precisamente, immaginò le urla che si generavano dal dolore: quelle stesse urla che le riempivano i pensieri e grondavano sangue.
Se solo avesse potuto li avrebbe scaraventati lontano, dentro il ventre della nebbia, e avrebbe lasciato che si perdessero insieme ai latrati dei cani o si confondessero con il cigolio dei cancelli arrugginiti dal tempo. Immobile dinnanzi alla finestra Gretel cominciò a piangere silenziosamente. Senza asciugarsi le lacrime continuò a fissare il vuoto, finché non vide i contorni di una figura scivolare nella nebbia e avanzare con movimenti incerti.
Proveniva certamente dal ponte della ferrovia, disse a se stessa: molto probabilmente era giunto con l’ultimo treno della notte. Gretel seguì con lo sguardo quella sagoma nel suo lento procedere, e quando finalmente fu più vicina ebbe la certezza che l’illuminazione della stanza la stesse guidando fin d’innanzi all’uscio della sua casa. Nello stesso istante che credette di perderla di vista udì tre colpi brevi sulla porta, sordi e distanziati così tanto uno dall’altro da sembrarle interminabili, allora trasalì e si asciugò le lacrime dalle guance.
Scostò la tenda che scivolava lungo il vetro della finestra e tentò di guardare verso il basso, ma la nebbia la rendeva cieca. Indugiò qualche istante nell’incertezza, finché alla fine si decise e si mosse. Attraversò silenziosamente la stanza e scese le scale fino al piano inferiore. Aprì la porta d’ingresso e senza volerlo sorrise.
In nessuna occasione, per tutta la vita, le era capitato di pensare che un giorno avrebbe sorriso trattenendo nell’animo così tanta disperazione.
– Ti stavo aspettando. – disse Gretel scostandosi dalla porta.
L’uomo la attraversò muovendosi come fosse una folata d’aria e si tolse il mantello intriso di umidità. Lo scosse leggermente e lo appese a un gancio della parete. Gretel richiuse con lentezza la porta e prese a risalire le scale.
– Abbiamo ancora un po’ di tempo. – sussurrò l’uomo intanto che la seguiva.
Gretel a quel punto si arrestò e si voltò leggermente. All’improvviso desiderò fortemente che lui la vedesse bella; istintivamente, quasi fosse un gesto involontario, lasciò scivolare lo scialle dalle spalle e sgranò gli occhi.
– Sei arrivato con l’ultimo treno? – gli chiese Gretel, e l’uomo annuì.
– Sapevo che saresti arrivato questa notte – aggiunse in un sussurro intanto che riprendeva a salire.
– Non immaginavo che mi avresti atteso. – disse l’uomo: – Credevo ti fossi dimenticata di me, come accade a gran parte delle persone che incontro.
– Ho dimenticato molte cose, in effetti… – sussurrò Gretel entrando nella stanza e invitandolo a sedersi su una poltroncina.
L’appartamento di Gretel non era molto grande; se si fosse voluto descriverlo con un aggettivo, il più appropriato sarebbe stato essenziale, come essenziali erano le sue stesse giornate. Una parete a volta separava il soggiorno dall’angolo cucina, dove una stufa a legna scoppiettava, producendo un piacevole calore che si diffondeva riempiendo lo spazio. Gretel si sedette su una sedia di fronte al suo ospite, e in silenzio cominciò a ripiegare ordinatamente lo scialle adagiandolo sulle cosce. In realtà avrebbe voluto nascondere l’imbarazzo, ma sentiva lo sguardo dell’uomo carezzarle la pelle.
– A volte dei ricordi mi tornano alla mente. – disse all’improvviso Gretel senza sollevare gli occhi da terra.
– Guardami, Gretel. – le sussurrò l’ospite, e non appena Gretel alzò lo sguardo l’uomo aggiunse:
– Mi trovi così tanto invecchiato?
– Ti trovo uguale a come ti ricordavo. – rispose Gretel, senza comprendere se la sua era stata una menzogna o una immagine che tornava deformata dal passato.
Intanto che rispondeva avrebbe voluto chiedergli se anche lui l’avesse trovata molto cambiata, ma ebbe paura della risposta, così rimase in silenzio ad ascoltare i ricordi mescolarsi al dolore.
– E come mi ricordavi? – insistette l’uomo, ma lo fece con un tono di voce tranquillo, addirittura rilassante.
Gretel gli sorrise. Trovando in sé il coraggio di fissarlo negli occhi percepì una sensazione di familiarità: qualcosa che non le accadeva da tanto tempo, e che le diede un brivido e le confuse i pensieri. Per un istante meditò di non rispondere: credette che si sarebbe vergognata a pronunciare dopo tanto tempo il suo nome. Ma all’improvviso, nonostante la sensazione di imbarazzo, perdendosi tra vecchi ricordi disse velocemente:
– Sei uguale a com’eri quand’ero ragazzina. Tu sei Hansel: mio fratello.
– Quando eri ragazzina… Ma tu non sei mai stata ragazzina. – ripeté l’uomo come se avesse voluto imprimersi quelle parole nella mente e contemporaneamente, condividendo lo stesso imbarazzo di Gretel, volse lo sguardo e osservò oltre la finestra.
Rimasero a lungo entrambi in silenzio. Avevano molto da dirsi e ben poco tempo a disposizione, ne erano consapevoli, ma i ricordi sembrarono sopraffarli, probabilmente conducendoli negli stessi luoghi lontani che non riuscivano a dimenticare.
– Ma non devi preoccuparti… Col tempo la rabbia svanisce. – aggiunse Hansel alzandosi dalla poltrona e avvicinandosi alla stufa.
Gretel annuì ma non si voltò, e nemmeno tentò di accompagnare con lo sguardo il lento gesticolare del fratello. Lo sentì invece sfregare la sola mano che gli era rimasta contro il moncherino dell’altro braccio al calore della fiamma, e gli fu grata per quel rumore che ebbe il potere di distrarla dai ricordi. Gretel non voleva ricordare, e per questo si convinse che lui le aveva appena detto una cosa sensata. Col tempo la rabbia svanisce, è vero, ma avrebbe voluto ribattere che i ricordi a volte hanno il potere di rianimarla.
– Rammenti quando scoppiava un temporale? – riprese a dire Hansel nel tentativo di scacciare i ricordi, mettendo nella voce un calore che ebbe il potere di scaldare la stanza: – Tu venivi a infilarti nel mio letto e pretendevi ti tenessi abbracciata.
Gretel chiuse gli occhi e avrebbe voluto che anche questo ricordo, soprattutto questo ricordo, si perdesse nella nebbia della sua mente. Giuse addirittura a provare una sensazione di felicità nel pensare che a breve non avrebbe ricordato più nulla e si convinse che la vita non concede vuoti, che non siano brevi o lunghe pause d’attesa.
Gretel riaprì in un sussulto gli occhi e attese. Percepì i passi di Hansel avvicinarsi e infine, appena dietro le sue spalle, avvertì come se le appartenesse il calore intenso che si sprigionava dal corpo del fratello.
– Mi riporti a casa? – gli domandò a voce bassa.
Hansel le carezzò i capelli con la cicatrice di quella sua mano che aveva la stessa consistenza delle pietre e scivolando lungo la guancia le asciugò le lacrime dal viso.
– Si… Ti riporto a casa! – le rispose con un filo di voce insolitamente pacata, e intanto con l’altra mano, quella buona, estrasse dalla tasca dei pantaloni un coltello e lo infilzò nel petto di Gretel trattenendola con dolcezza, affinché lei non potesse scivolare dalla sedia.

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Un commento

  1. Ricardi Giovanna

    Ho letto tutto d’un fiato il racconto e devo ammettere che mi è piaciuto parecchio.
    La ricchezza narrativa, mi ha spinto immediatamente all’interno della casa
    facendomi comprendere
    stato d’animo dei protagonisti ed atmosfera, la scorrevolezza espressiva
    mi ha saputo trascinare
    verso il finale stimolando in modo crescente curiosità ed interesse.
    Tutto questo nell’immediato, successivamente, le riflessioni mi hanno portato ad analizzare la complessità del legame che esiste tra fratelli.
    Pur non avendo vissuto esperienze estreme come si può intuire dal suo scritto, penso esistano sentimenti forti e contraddittori, un ingarbugliato intreccio di affetto profondo e conflitti distruttivi che condizionano notevolmente il rapporto e che difficilmente riescono a risolversi con il passare degli anni.
    Per atmosfera, senso di ineluttabilita’ e nonostante la diversità dello stile, incalzante ma lieve, mi ha un po’ ricordato la favola nera di A. Kristof “Trilogia della città di K”, romanzo molto strano ed inquietante
    che mi aveva molto colpito.
    In fondo, le lacerazioni che portiamo ci ricordano che, nonostante lo scorrere del tempo, il passato è “reale” e spesso torna a a riafferrarci.

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